U beddu e a bedda
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L'artista descrive l'opera
I miei mori, tradizionali figure siciliane, sono figli di mamma Etna, nati da uno dei quattro crateri che si trovano in cima. Così come il pastorello Aci e la ninfa Galatea (anche loro abitanti di questi posti), si sono mescolati attraverso le acque di un fiume e di un mare, u beddu e a bedda (“il bello” e “la bella”, in siciliano), sono stati creati dalla lava dell’Etna, che arde come la loro passione d’amore.
Dettagli e dimensioni
L'opera nella cultura siciliana
Le teste di Moro sono una rappresentazione classica della Sicilia artistica. I mori ci riportano alla dominazione araba in Sicilia (IX-XI secolo). Il periodo musulmano è durato quasi due secoli ma è quello che ha lasciato l’impronta maggiore, probabilmente, nella ricchissima storia della Sicilia. Non tanto nei monumenti (veramente pochissimi) ma nella quotidianità, nell’etimologia di molte parole, nel dialetto, negli usi e costumi. I mori sono delle figure tipiche che entrano in gioco molto spesso nella cultura siciliana come ad esempio nell’Opera dei Pupi o nella leggenda delle teste di moro. Queste ultime raccontano di una leggenda nella quale una bella siciliana invaghitasi di un Arabo al tempo che questi regnavano in Sicilia (IX-XI secolo), essendo dal moro tradita, lo decapitò nel sonno ed appese la testa, come fosse un vaso, al balcone, adornandola anche con una profumata pianta di basilico che destò l’ammirazione degli ignari passanti. In un certo qual senso, gli Arabi, non se ne sono mai andati dalla Sicilia. L’Etna, il vulcano piu alto d’Europa (3300 mt slm), domina imperiosa la parte orientale della Sicilia ma è talmente enorme che si vede fino a centinaia di chilometri di distanza. Uomini di tutte le epoche ne hanno scalato la cima a partire dal filosofo agrigentino Empedocle (V a.C.) che la leggenda vuole abbia finito la sua vita buttandovisi dentro. Il toponimo (Aitna) sembra derivare da qualche parola la cui etimologia, riconduce al significato “ardere”, “bruciare”. Per gli Arabi di Sicilia (IX-XI secolo) era una montagna alta due volte e la chiamarono Mons (monte) Gebel (montagna), due volte montagna; e fino al recente passato (ma anche oggi) i siciliani la chiamavano Mongibello. Ma il suo nome siciliano per eccellenza è: “a muntagna”. Essa ha dato lavoro ai nivalori (che raccoglievano la neve, la conservavano nelle grotte del vulcano e poi la vendevano nei paesi), ai carbonai, ai raccoglitori di Ginestra (ottima per i fornai). In questa opera d’arte la sua cenere, che durante le frequenti eruzioni cade come pioggia sulle città a lei vicine (e la gente deve munirsi di ombrello), è stata eternamente “intrappolata” in una tela.
(photo) San Giovanni degli Eremiti. Palermo, a typical example of the Arab-Norman architecture, which is unique to Sicily (Maria Francesca Starrabba drawning)